lunedì 30 gennaio 2012

ACAB - All Cops Are Bastards


Cobra, Negro e Mazinga sono celerini e ‘fratelli' dentro gli stadi, lungo le strade e intorno alle piazze che ‘ripuliscono' la domenica dagli ultras e i giorni in avanzo dai clandestini, dagli sfrattati, dai delinquenti e dalle puttane. (Co)stretti tra le logiche dello Stato e l'odio della comunità, i poliziotti del Reparto Mobile assorbono dosi di rabbia e producono violenza legalizzata contro la violenza cieca dei tifosi dei sassi e delle lame. Uomini invisi, mariti congedati, padri inadeguati, Cobra, Negro e Mazinga provano a dimenticare il privato dolente nella cosa pubblica, picchiando duro chi minaccia l'ordine e la nazione. Dentro la divisa e dietro la visiera guardano la miseria del mondo e i miserabili che la abitano senza intenzione se non quella della prepotenza e della sopraffazione. Compromessi dalla ‘spedizione genovese' e perduta l'anima nella scuola Diaz, sei anni dopo cercano il riscatto nell'azione e nell'istruzione alla fratellanza di un giovane agente individualista e ribelle. Spina, eccitato dal sangue e iniziato col lacrimogeno, seguirà gli anziani sul confine, decidendo per sé e per la divisa che indossa un domani meno celere. Sulla strada restano i fratelli maggiori. Assediati dal buio, impugnano il manganello e sollevano gli scudi, sfollando le ombre e ricacciando i fantasmi.
Abbattuti sui marciapiedi della Magliana i criminali fascinosamente famelici di De Cataldo, Stefano Sollima ‘archivia' la televisione e debutta al cinema con un film che produce uno spiazzamento e mette in circolo altre visioni. Profondamente buio, ubiquo e pervasivo, ACAB attenta il gusto dominante, aprendo uno squarcio, soggettivo, parziale, ideologico, estetizzante e tutto ciò che si vuole, su una realtà altrimenti muta. Diversamente dai poliziotti domestici e addomesticati dei distretti Mediaset o delle squadre Rai, le ‘guardie' di Sollima nascono dal popolo e dalle periferie romane, abbandonate alla criminalità straniera che spegne la tolleranza e accende il desiderio di farsi giustizia da soli. Usciti dall'indagine e dalle pagine di Carlo Bonini, giornalista del quotidiano “la Repubblica”, i celerini di ACAB sono una massa incandescente di energia umana, un corpo di solitudine incapace di gestire nel pubblico come nel privato un rapporto non autoritario con l'altro.
Sollima non si propone di e si guarda bene dal creare alcun mito, pur avvalendosi, anche inconsapevolmente, di materiali mitologici preesistenti. I celerini di Nigro, Favino e Giallini sono essenzialmente guerrieri, combattenti fedeli a un codice (e a un reparto) e chiusi in una psiche scultorea che non riesce a fugare le ombre di un pensare barbaro e radicale. Cortocircuitando cronaca e cinema di genere il regista prova a leggere la realtà sotto la scorza e dietro la visiera, regalandoci uno spaccato di vita italiana come e meglio di molto realismo conclamato. ACAB interviene aspramente sui problemi sociali, giocando con la pura finzione ma facendo attenzione a non coprire la realtà con la vernice degli stereotipi.
Sollima individua nel libro omonimo di Bonini una struttura forte di partenza, un punto di vista inedito e francamente impensabile nel nostro Paese e nel nostro cinema, segnalando che l'inferno non è mai (solo) là dove vedi fuoco e fiamme, e che il sangue più terribile non è mai (solo) quello che ci fanno vedere. I protagonisti di ACAB, diversamente dai banditi della Magliana secondo Placido, non patiscono il capriccio sacrificale e romantico degli ex bambini poveri da rievocare in flashback. Dentro set e costumi (di ordine pubblico) che non si ‘sentono' mai, incoraggiando la visione e la convinzione di quello a cui si assiste, i protagonisti in blu, azzurro e cremisi abitano una società violenta che ‘sfratta' il superfluo, il brutto, il debole e chiede loro di esserne gli esecutori tutt'altro che immuni. Perché non tutti i poliziotti sono violenti e dediti alla repressione ma allo stesso modo sono scarsi gli anticorpi capaci di fronteggiare deviazioni sempre possibili in una professione delicata e irascibile come quella dei reparti mobili. La macchina da presa testimonia silenziosa le tensioni e lo stress che gli attori ‘agenti' vivono in molte, troppe situazioni, trattenuti da quadri legislativi sempre ambigui in un originario modello di braccio armato del potere e impediti dai governi, nessuno escluso, a infilare la direzione di organo statuale garante dei diritti.
Sollima, senza dimenticare o scontare la mentalità nera di quella struttura operativa, che ha radici sprofondate in una giovane Repubblica costretta a fare i conti con una continuità pressoché integrale della polizia fascista, mette in piazza uomini biasimati e disapprovati, malpagati, male addestrati e nulla equipaggiati, che devono agire immediatamente, privilegiando l'efficacia ai valori democratici. Là fuori il controllo gerarchico si allenta e gli uomini restano soli con la paura di un ‘nemico interno' e la libertà d'azione di fare il male, di fare male, di farsi male.
Guardalo Subito

Mission Impossible - Protocollo Fantasma


Implicati loro malgrado in un gravissimo attentato terroristico al Cremlino l'agente Ethan Hunt e i suoi collaboratori sono messi al bando dal governo americano. Il Presidente lancia l'operazione "Protocollo Fantasma". Hunt e i suoi ufficialmente non agiscono più per conto degli Usa ma tocca a loro, senza alcuna copertura, cercare di fermare chi sta cercando di scatenare una guerra nucleare contando sulla mai sopita diffidenza tra russi e yankee.
Le serie televisive, come si sa, sono concepite in modo tale da poter passare di mano in mano (leggi: di regista in regista) senza che i non addetti ai lavori si accorgano di nulla. La standardizzazione è la regola di base a cui tutti si debbono attenere. Sul grande schermo fortunatamente le cose procedono diversamente. Siamo ormai alla quarta Mission Impossible e ogni volta abbiamo assistito a una conferma della continuità unita però a un'incessante variazione di stile. Brian De Palma, che aveva curato l'esordio, non aveva rinunciato al suo gusto per la ricerca stilistica e la citazione raffinata mentre John Woo aveva dato sfogo alla passione per l'esasperazione di ogni singolo dettaglio. J.J. Abrams aveva raccolto l'eredità cercando di portare alla storia il suo spiccato interesse per una costruzione narrativa in cui l'amato (e ampiamente sperimentato in Lost) flashback entrasse in gioco per strutturare un'emozione che non scaturisse solo dall'azione.È ora il turno di Brad Bird che, lasciati i supereroi in cerca di tranquillità de Gli Incredibili e i fornelli di Ratatouille, affronta attori in carne ed ossa che agiscono però in una dimensione in cui gli spettatori debbono essere disponibili a sospendere la famosa incredulità o disporsi a fare altre scelte. Perché Ethan Hunt sopravvive ancora a qualsiasi percossa e caduta (con un po' di dolore a una gamba e nulla più) come da contratto ma, pur aderendo a questa dimensione, Bird non rinuncia a percorrere la strada esplorata da Abrams.
Cerca cioè di umanizzare l'"incredibile" agente offrendogli delle occasioni per far emergere emozioni che vadano al di là della pura action in escalation (che ovviamente non manca). Se allo 007 di Daniel Craig si concedeva un 'passato' ora quello di Ethan Hunt viene letto sotto una nuova luce. Ma, al suo fianco, c'è un gruppo che consente di diversificare anche i diversi livelli dell'azione aggiungendo qualche punta di ironia in più grazie al personaggio interpretato da Simon Pegg. I cattivi? Non mancano e sono proprio cattivi e, come spiega Hunt offrendoci in due battute una lezione di sceneggiatura di genere: "Quando sparano non pensano. Tirano su tutto quello si muove."
Guardalo Subito

L'arte di vincere


Gli Oakland Athletics sono una buona squadra di baseball che però non può competere con i budget stratosferici di squadre come ad esempio i New York Yankees. Quando al termine di una buona stagione il general manager Billy Beane si vede portar via i suoi tre migliori giocatori, la loro sostituzione diventa impossibile, soprattutto con i pochissimi soldi a disposizione. A questo punto però Beane incontra Peter Brand, giovane laureato in economia che gli dimostra come si possa costruire una squadra vincente basandosi sulle statistiche invece che sui nomi altisonanti. Beane abbraccia la filosofia del ragazzo e rifonda la squadra con nomi sconosciuti o apparenti scarti, lasciando basiti tutti i collaboratori degli Oakland Athletics, compreso l'allenatore Art Howe. All'inizio le cose non sembrano funzionare, ma pian piano il "sistema" messo in piedi da Beane Brand comincia a dare frutti insperati…
L'idea giusta nell'uomo sbagliato. Così potremmo sintetizzare l'idea portante de L'arte di vincere, seconda regia di Bennett Miller presentata al Toronto Film Festival. Questa è la bellezza intrinseca del personaggio principale, Billy Beane, interpretato alla perfezione da Brad Pitt: un uomo che è stato sconfitto come giocatore dal sistema vigente nel mondo del baseball e che da dirigente tenta con ogni mezzo di cambiarlo quando ne vede la reale opportunità. Una figura tutt'altro che eroica quella tratteggiata dalla penna di Steven Zaillian e Aaron Sorkin e per questo molto interessante: Beane è ossessionato dal suo lavoro, anche nel successo continua inconsciamente a sentirsi uno “sconfitto” – non guarda mai le partite allo stadio, sente dentro di sé di non portare fortuna alla squadra – e lo spirito di rivalsa che lo attanaglia non è ben chiaro neppure a lui. La star, colonna portante del film, gli regala carisma e anche una certa dose di ambigua rabbia repressa, che ad esempio viene sfogata dal costante assaggiare ogni cosa che gli capita a tiro. Accanto a Pitt un efficacissimo Jonah Hill, dopo Cyrus nuovamente alle prese con un ruolo soltanto incidentalmente comico. Utilizzato con poca sapienza invece Philip Seymour Hoffman, eccessivamente sacrificato nella parte dell'allenatore Howe.
L'idea di fondo de L'arte di vincere è molto forte, oseremmo dire “politica” nel senso inteso più ampio del termine, così come lo concepisce Aaron Sorkin: un sistema correttamente eseguito e basato sull'interazione di un gruppo di individui può essere più valido del singolo che eccelle. Miller mette in scena questo messaggio e gli uomini che tentano di renderlo verità con ottima professionalità, aiutato dalla fotografia elegante di Wally Pfister.
L'arte di vincere non deve essere confuso per un semplice film sportivo, quando invece è una storia basata su chi resta nelle retrovie e vede lo sport come comunità, spinta etica, ideale raggiungimento dell'eccellenza. La visione del baseball che il film ci propone è molto interessante, per niente scontata, e dietro di essa ovviamente c'è l'America come ognuno vorrebbe che fosse. Magari anche ferita e rabbiosa, ma sempre disposta a credere nel miglioramento collettivo.
Guardalo Subito

The Iron Lady


Chester Square, oggi. L’ottantenne Margaret Thatcher, ex Primo Ministro britannico, affetta da una crescente demenza senile, parla con il marito Denis, morto da anni, mentre resiste alla necessità di liberarsi del guardaroba dell’uomo e insieme combatte strenuamente la perdita del suo immenso potere e l’inesorabile passare del tempo. Nota per la sua politica ultraconservatrice e per le scelte controverse in campo nazionale e internazionale, la Thatcher – racconta il film - è stata una donna che all’ambizione politica ha immolato se stessa e la sua vita privata.
Se si può solo restare ammirati da un talento che non scema e anzi probabilmente cresce, come quello di Meryl Streep, qui nella performance che ne farà un’icona elevata alla seconda, il resto del film controbilancia tanto entusiasmo e si dispiega su un binario pianamente biografico: pianeggianti sono, infatti, la regia di Phyllida Loyd e la scrittura di Abi Morgan, forse più felice in sede televisiva che cinematografica.
Le idee di fondo sono due: da un lato, l’adozione di una focalizzazione interna, vale a dire del punto di vista della protagonista, in modo da sospendere (o quasi) ogni giudizio esterno sul suo operato politico; dall’altro l’idea di raccontare la Thatcher anziana, preda di una malattia progressiva e allucinogena che le fa mescolare il presente ai ricordi del passato, kronos e kairos, e in questo modo la costringe a ripercorrere una vita e a fare un bilancio (solo) in parte doloroso di se stessa.
Non c’è dubbio che lo sguardo sul personaggio esca da un lavaggio con dosi massicce di ammorbidente, ma parlare di agiografia non è onesto, perché man mano che il film procede la determinazione della giovane Margaret Roberts lascia sempre più chiaramente il posto alla cecità di una donna che obbedisce ad una convinzione monomaniacale (no al compromesso, in nessun caso), mandando per questo a morire la sua gente e mettendo in ginocchio una nazione. È un passaggio silenzioso ma presente. E tra le righe bisognerebbe leggere almeno un altro dato che il film non commenta: la sua rielezione da parte dei cittadini brittanici per ben tre mandati, nonostante fosse la donna più odiata del mondo.
Al di là di trucco e parrucco, The Iron Lady ha dunque una sua ragione d’interesse non solo in Jim Broadbent, che si conferma un efficacissimo salvagente, ma soprattutto fuori dallo schermo, oggi che l’Inghilterra non è meno Broken England di allora e di certo non è la sola. La confusione tra passato e presente potrebbe non essere solo un espediente di scrittura, ma affondare qualche volontaria radice nella realtà.
Guardalo Subito

Bobby Fischer Against the World


Nato nel 1943 e morto nel 2008 Bobby Fischer è stato sicuramente un grande scacchista se non il più grande. Il documentario prodotto dall’HBO ne ripercorre la biografia utilizzando le testimonianze di chi lo ha conosciuto direttamente, integrate con un’ampia selezione di materiali video. Ne emerge un ritratto che ha al centro il famosissimo incontro in Finlandia con Boris Spassky tenutosi nel 1972 e avente in palio la corona mondiale allora detenuta dal russo e conquistata in quell’occasione dall’americano. Ciò che però più interessa Liz Garbus sono la complessa psicologia del personaggio nonché i segni impressi su di lui da un’infanzia e un’adolescenza non particolarmente felici se non per i successi scacchistici.
Il cinema si era già avvicinato a distanza di sicurezza alla sua figura con Sotto scacco, in cui ci si occupava di un bambino che lo vedeva come un mito. In questo documentario il mito resiste su un piano, diciamo così, professionale mentre si sgretola su quello interiore. Fischer, figlio di genitori ebrei e con un padre naturale praticamente mai conosciuto, dopo la vittoria non solo scomparirà perdendo a tavolino il titolo ma, quando deciderà di tornare sulla ribalta, lo farà trasformato in un antisemita viscerale oltre che in un contravventore delle disposizioni del governo americano. Subendo quindi una condanna ed essendo costretto a vagare all’estero. Garbus gioca con grande perizia le carte che si trova a disposizione, rifugge dal delineare l’ormai stucchevole stereotipo del genio folle cercando invece di scavare alla ricerca delle cause profonde del malessere esistenziale che portò Fischer a innescare una vera e propria patologia. Più che le testimonianze, peraltro di prima mano, di chi lo conobbe non superficialmente sono di grande interesse le immagini (di repertorio e non) che lo ritraggono sin da bambino quasi incatenato alla scacchiera. È come se re, regina, cavallo ecc. fossero divenuti i pezzi di un gioco la cui posta era molto più alta di una vittoria contro l’avversario seduto sulla sedia di fronte. Concentrando su di sé tutta la sua energia gli scacchi impedivano a Fischer di trovare il tempo per meditare su se stesso e sulla propria fragilità. Garbus inserisce anche, senza pedanteria, una riflessione sul ruolo che gli scacchi ebbero nel confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Si trattava di avversari di una guerra tattica, come è quella sulla scacchiera, che la testimonianza dell’allora Segretario di Stato Henry Kissinger mette chiaramente in luce. Siamo quindi di fronte a una ricostruzione che potrà deludere gli appassionati del gioco che non avranno a disposizione una sovrabbondanza di informazioni sulla perizia tecnica di un loro beniamino. Troverà invece il favore del più vasto pubblico di coloro i quali, dietro alla facciata di ascese e cadute, vanno alla ricerca della dimensione più umana e interiore di un personaggio come Bobby Fischer.
Guardalo Subito

E ora dove andiamo?


In un paese in una zona montuosa del Medioriente la piccolo comunità è divisa tra musulmani e cattolici. Se gli uomini sono spesso pronti alla rissa tra opposte fazioni le donne, tra cui spiccano le figure di Amale, Takla, Yvonne, Afaf e Saydeh sono invece solidali nel cercare di distogliere mariti e figli dal desiderio di trasformare i pregiudizi in violenza. Non tralasciano alcun mezzo in questa loro missione, ivi compreso far piangere sangue a una statua della Madonna o far arrivare in paese delle ballerine da avanspettacolo dell'Europa dell'Est affinché i maschi siano attratti da loro più che dal ricorso alle armi. Si arriva però, nonostante tutto, a un punto di tensione tale in cui ogni tentativo di pacificazione sembra ormai inutile.
Dopo averci deliziato con una beirutiana depilazione al profumo di caramello, Nadine Labaki lascia la città per tornare ad affrontare con stile diverso ma con intatta (se non addirittura maggiore) efficacia il tema che sembra maggiormente starle a cuore: la convivenza tra esseri umani che professano una religiosità diversa. In questo film, che si apre con una coreografia cimiteriale di grande effetto, Labaki svaria dalla commedia al dramma non negandosi neppure sprazzi di musical. Questo però non va a detrimento dell'unitarietà di un film che proprio nel variare dei toni trova la cifra stilistica su cui intessere un elogio alla saggezza delle donne che non le presenta però manicheisticamente come ‘migliori'. Hanno i loro cedimenti, le loro rivalità, le loro invidie ma sanno però, ogni volta, ritrovare quella ragionevolezza che gli uomini sembrano sempre pronti a perdere cedendo a provocazioni spesso infantili. Labaki dirige (e attraversa come interprete di grande impatto) un film che ha la leggerezza che è propria di chi ha scavato nel profondo di un'intolleranza che non è più ‘tollerabile'. Se lo slogan del '68 “una risata vi seppellirà” ha perso la sua efficacia forse un sorriso può avere ancora la forza di erodere il cancro dell'integralismo.
Guardalo Subito

Sette opere di misericordia


Torino. Luminita è una giovane clandestina romena che sopravvive grazie al borseggio di cui deve poi dare i frutti ai suoi 'padroni'. Luminita ha però un piano per sfuggire al loro controllo e ottenere dei documenti falsi. Inizia a metterlo in atto scegliendosi una vittima a caso. La vittima è Antonio, un uomo anziano e malato che vive in una situazione di semidegrado ed è costretto periodicamente a farsi ricoverare in ospedale. È lì che la ragazza lo incontra e inizia a seguirne le mosse.
Se vivessimo nell'area francofona in cui la passione cinefila è ancora intensamente vissuta si potrebbe paragonare l’esordio nel lungometraggio di finzione dei fratelli De Serio a quello dei Dardenne con La Promesse. Temiamo invece (sperando ovviamente di essere smentiti) che questo film non riceva l'attenzione che invece merita. Perché la rilettura delle cristiane opere di misericordia non ha nulla di confessionale e invece ha moltissimo di quel cinema che sa scavare a fondo nell’animo umano tout court.
Nel deserto delle vite dei due protagonisti sembra non esserci spazio per un sentimento che vada al di là del sopravvivere a se stessi. Antonio trascorre le sue giornate in spazi in cui il buco che ha in gola sembra aver assorbito come un'idrovora qualsiasi possibilità di bellezza. Luminita ha invece la ferinità di un animale la cui gabbia è una città che le è estranea e i cui feroci guardiani parlano la sua stessa lingua. Per lei la misericordia e le sue opere si sono capovolte in azioni il cui fine non è un cuore che condivide la miseria umana (come vuole la matrice latina della parola) ma l'usare l'altro ai propri fini. I De Serio ci mostrano questo scontro/incontro tra due aride solitudini andando alla ricerca non di un lieto fine quanto piuttosto di un ‘fine’, di un senso dell'esistere. Lo fanno con un lucido percorso scandito dalle sette stazioni del titolo nell'ambito del quale lo spettatore è chiamato a interrogarsi e quasi a porsi lui come regista chiedendosi quale sarà l'evolvere della vicenda e quale direzione prenderanno gli eventi. È un cinema fatto di gesti, di sguardi, di silenzi più che di parole questo Sette opere di misericordia, ma proprio grazie al suo rigore stilistico riesce ad arrivare nel profondo e a farsi film difficile da dimenticare.
Guardalo Subito